Se l’insonnia è un sintomo

Una delle cause può essere la depressione: la condizione è dovuta a diversa motivazioni; ricorrere alle terapie senza una corretta diagnosi rischia di cronicizzare il disturbo invece di risolverlo.

L’ insonnia è il disturbo del sonno più comune, assieme alle apnee ostruttive notturne: si stima che il 40 per cento della popolazione prima o poi ne soffra e fino al 10 per cento sviluppi una malattia cronica, che dura più di tre mesi. Risolverla è possibile a patto di non banalizzarla, cosa che invece accade spesso come sottolinea Francesco Fanfulla, responsabile del Centro di medicina del Sonno dell’ Irccs Maugeri di Pavia e Montescano (PV): “Se c’è qualche difficoltà a dormire che si risolve entro pochi giorni non c’è di che allarmarsi, ma se il sintomo persiste dopo un paio di settimane, non migliora oppure si ripresenta è bene parlarne al medico di famiglia, senza cercare di risolverlo con il fai da te. Questo perché il malessere connesso all’insonnia può essere provocato da disturbi  del sonno diversi dalla classica insonnia, da una deprivazione cronica del riposo, da abitudini scorrette, da un’alterazione dei ritmi biologici che meritano di essere indagati  e risolti, ma soprattutto perché l’automedicazione è rischiosa. Gli interventi possibili non sono tutti uguali e hanno un possibile ruolo, ma bisogna usarli con criterio, perché altrimenti la probabilità che il disturbo diventi cronico è concreta”.

Il primo passo quindi , se la difficoltà a dormire non si risolve in pochi giorni, è capire di che insonnia si tratta e cioè se si fa fatica ad addormentarsi o ci si risveglia troppo presto, oppure ancora se si hanno tanti risvegli notturni; quindi , va considerato lo stile di vita per intervenire prima di tutto sulle abitudini che potrebbero compromettere un buon sonno. Spesso questo basta a risolvere il disturbo e come aggiunge Luigi Ferini-Strambi, direttore del centro di Medicina del Sonno dell’ Irccs Ospedale San Raffaele di Milano, “Anche passiflora, camomilla e simili possono aiutare, basta essere coscienti che la tazza di tisana serve solo per creare un condizionamento positivo, una sensazione di rilassamento che favorisce il riposo, un po’ come abbassare le luci alla sera: non sono certo ipno-inducenti (cioè non inducono il sonno ,ndr), cosi come non lo è la melatonina. Questa sostanza viene spesso presa sperando di risolvere l’insonnia, ma non ha né la potenza né le caratteristiche dei farmaci ipnotici: è invece un cosiddetto ipno-favorente, contribuisce al rilassamento serale per facilitare l’addormentamento. Ma la produce l’organismo e per averne a sufficienza è importante non esporsi a luci forti alla sera oppure agli schermi di computer e smartphone, nell’ora prima di coricarsi”.

Pensare però di poter risolvere l’insonnia solo con integratori di melatonina, senza passare per una corretta diagnosi, rischia di portare alla cronicizzazione del disturbo e lo stesso vale con i farmaci usati come fai da te. Puntualizza Fanfulla: “Se si prendono ipnotici non bisogna superare i quattro, cinque giorni di trattamento, altrimenti c’è il pericolo di assuefazione. E se si eccede con dosi e consumo occorre ridurre gocce o pillole in maniera controllata, perché se la sospensione non è graduale si può avere la cosiddetta insonnia di rimbalzo (in cui peraltro spesso i sintomi peggiorano, ndr)”.

Il sonnifero preso senza controllo è pericoloso perché può acuire il problema, insomma, ma anche perché può essere perfino inutile: “La diagnosi corretta è indispensabile perché a volte la scarsa qualità o quantità di sonno è indice di qualcosa di diverso dall’insonnia”, osserva Ferini-Strambi. “Se la causa è una sindrome delle gambe senza riposo non servono ipnotici, se ci sono apnee ostruttive notturne occorre risolvere quelle, se il disturbo si presenta soprattutto con risvegli precoci al mattino può essere il primo segno di una depressione da inquadrare e trattare”.

Quando poi l’insonnia diventa cronica l’approccio deve cambiare e la soluzione è spesso la terapia cognitivo-comportamentale, attraverso sedute o di gruppo modellate sulle esigenze individuali. Un recente studio dell’ australiana Flinders University ha dimostrato l’efficacia dell’ intervento su pazienti del ‘mondo reale’, non selezionati per studi clinici, sottolineando che la strategia ha effetti positivi anche sull’ ansia, la depressione e lo stress che spesso si accompagnano all’ insonnia: questo secondo i ricercatori, dovrebbe essere il metodo di prima scelta nell’insonnia cronica, a patto che sia gestito da terapisti specializzati nella gestione dei disturbi del sonno. “Una terapia cognitivo-comportamentale non specifica potrebbe non funzionare, invece quella condotta da esperti sul sonno è molto valida: anche a distanza di sette, otto anni mantiene un’efficacia che arriva al 70 per cento”, conclude Ferini-Strambi.

Articolo scritto da Elena Meli

Corriere salute – Corriere della Sera